La Passione
IL GETSEMANI
Dopo le ore di struggente intimità trascorse insieme nel Cenacolo, Gesù ed i discepoli lasciano il luogo della Cena. Non è più presente, in mezzo a loro, Giuda Iscariota. Il piccolo gruppo costeggia la falda dell’Ofel, a sud della spianata del Tempio, e attraverso le vie campestri ed una scalinata che conduce al torrente Cedron, si dirige verso il monte degli Ulivi, un colle situato ad est di Gerusalemme, proprio di fronte alle mura orientali del Tempio.
Giungono in una località chiamata Gethsemani, che significa “frantoio per le olive”. E’ un luogo già frequentato, altre volte, da Gesù e dai suoi amici. Luca, infatti, scrive una prima volta: “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi”(Lc 21,37). Poi: “Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono”(Lc 22,39).
Essendoci stato altre volte con Gesù e gli altri discepoli, Giuda Iscariota conosce bene il luogo e quindi sa dove rintracciare il Maestro per farlo catturare. In questa località posta là dove il declivio del monte degli Ulivi sta quasi per distendersi nella sottostante valle del Cedron, c’è una grotta nella quale era forse il “frantoio per l’olio”. Infatti la tradizione giudeo cristiana, quella più antica, ha conservato anzitutto il ricordo di questa grotta(Cfr. Sui passi di Dio, Guida, ELLE DI CI LEUMANN, 1984, pag. 111). E’ qui che secondo la tradizione Gesù lascia otto dei suoi apostoli, e qui viene tradito da Giuda e catturato.
Poco distante, “quasi un tiro di sasso”(Cfr. Lc 22,41), c’è il Giardino o orto degli Ulivi, che custodisce tuttora otto Ulivi secolari dai tronchi enormi che raggiungono dai 6 agli 11 metri di circonferenza. In questo giardino Gesù si rifugia, staccandosi dagli apostoli e conducendo con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma lasciamo, per ora, la descrizione del valore del luogo e veniamo agli eventi che precedono l’arresto del Maestro.
Partiamo con la testimonianza evangelica che, almeno per noi, potrebbe essere la più antica. E’ quella dell’evangelista Marco: “Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu».
Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino»”(Mc 14,32-42).
Dicevamo del Getsemani, il cui termine, “Ghet Shemanin”, significa “frantoio per le olive”. E davvero i sentimenti di Gesù, in questa sera drammatica che prelude alla sua passione, si susseguono a ondate successive, quasi macinati, come in un frantoio immaginario, dagli avvenimenti dolorosi che sembrano travolgerlo. Il gruppo giunge al Getsèmani, e qui Gesù invita i suoi amici a sedersi, mentre lui si distacca da loro insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni. E’ chiaro l’intento dello Scrittore sacro: cita tre nomi a testimoniare la storicità dell’episodio. Marco li nomina quasi come testimoni oculari dell’episodio, oltre ovviamente a sottolineare il loro ruolo prioritario nella Comunità apostolica. Lo stesso evangelista attesta che Gesù comincia “a sentire paura e angoscia”. È lui stesso a confessarlo: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate».
Gesù è solo. Sa che i suoi nemici stanno ordendo una terribile congiura contro di lui. Sa che Giuda lo ha lasciato. Intuisce quello che sta per succedere. E allora prova un senso di angoscia e di nausea verso il pericolo imminente ingigantito dalle ombre delle tenebre.
«Poi, andato un pò innanzi, si getta a terra e prega che, se fosse possibile, passi da lui quest’ora, rivolgendosi al Padre nel modo più confidenziale: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu».
Tornato indietro, Gesù vede che Pietro, Giacomo e Giovanni si sono addormentati. Poi si rivolge a Pietro chiamandolo col suo nome originario: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Poi si allontana di nuovo, pregando e ripetendo le medesime parole, come annota l’evangelista. Chiede, quindi, nuovamente al Padre di allontanare da sé l’ora del dolore ed il calice simbolico traboccante di sofferenza ed amarezza. È tutta l’umanità di Gesù che si ribella al pensiero del dolore e della morte, quella che si rivolge al Padre per tre volte, chiedendo di allontanare “possibilmente” quest’ora e questo calice di dolore”.
Certamente Gesù si trova ad un bivio decisivo della sua Vita. La sua Missione lo porta di fronte ad una scelta risoluta. Una scelta che già aveva fatto prima, decidendo di salire a Gerusalemme per la Pasqua, pur sapendo a cosa poteva andare incontro. Non si trova, qui nel Getsemani, con le spalle al muro. Tutt’altro. Contrariamente a quanto si possa pensare, Egli ha un grande ventaglio di possibilità per sfuggire alla furia delle Autorità Giudaiche che lo stanno cercando con l’aiuto di Giuda Iscariota. Qui dobbiamo ripetere un concetto già espresso altrove, e cioè che, pur sapendo che Giuda è al corrente di questo “rifugio”, essendo venuto più volte, qui, con i suoi amici, Gesù ha voluto rifugiarsi lo stesso qui, nel Getsemani. E qui ripetiamo quando già detto altrove: Gesù sceglie di venire al Getsemani innanzitutto perché nella notte di Pasqua bisogna pernottare a Gerusalemme per celebrare tale Festa, e quando si dice Gerusalemme si può intendere anche la grande Gerusalemme, quindi non solo il perimetro delle mura che circonda la Città santa, ma un perimetro più vasto che abbraccia, ad oriente, anche il monte degli Ulivi e il villaggio di Betfage, mentre Betania, non ne fa parte. Quindi anche il Getsemani ed il monte degli Ulivi fanno parte di questo perimetro. Questo è il primo motivo che spinge Gesù a vivere, come ogni ebreo, la Festa della Pasqua, pernottando insieme ai suoi discepoli, secondo la consuetudine religiosa ebraica, nel perimetro di Gerusalemme. E questo Gesù lo fa pur sapendo che il traditore lo troverà facilmente qui: nel Getsemani(Cfr. Joachim Jeremias, Le parole dell'ultima cena, Paideia Editrice Brescia, 1973, pag. 61 ss.).
Eppure Egli sa che Giuda lo raggiungerà con la soldataglia. Potrebbe andare altrove per sfuggire all’ira delle Autorità Giudaiche. Potrebbe recarsi a Betania che si trova al di là del colle degli Ulivi, e quindi rifugiarsi in casa dell’amico Lazzaro. O, meglio ancora, potrebbe rifugiarsi nel deserto di Giuda che comincia subito dopo Betania. I suoi anfratti, le sue gole, perfino qualche fazzoletto di verde, inabissato tra le dune sassose, potrebbe offrire un comodo rifugio a lui ed ai suoi amici. E poi, con tutta calma, discendere verso Gerico, ripercorrere la valle del Giordano, e tornare, quindi, nella più tranquilla Galilea, la sua Terra, dove nessuno potrebbe fargli del male, specialmente vivendo ed operando al confine col territorio di Erode Filippo.
Niente di tutto questo: Gesù intende vivere la Pasqua, la sua Pasqua, fino in fondo, pur sapendo che Giuda lo troverà proprio qui, sul monte degli Ulivi. E allora, se da una parte rifiuta di fuggire, contrariamente ad altre volte che lo aveva fatto (Cfr. Gv 9,59; 10,39), dall’altra Gesù prova un senso di “…grande angoscia e nausea verso il dolore, fino a rendere ripugnante davanti al suo sguardo la prospettiva di una passione non solo dolorosa fino alla morte ma umiliante; ingiustamente umiliante”(Donato Calabrese, il rosario delle beatitudini, Paoline editoriale libri, 1997, p. 32).
Ritornato dai suoi amici, li trova addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti. Viene nuovamente a loro per la terza volta e dice: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino»”(Mc 14,32-42).
Emerge, nel quadro drammatico presentato da Marco, il contrasto stridente tra i sentimenti del Maestro, ormai angosciato di fronte alle ore imminenti della sua passione, con l’inerme passività e stanchezza dei suoi amici, completamente all’oscuro di quanto sta per succedere. Il loro sonno notturno non fa che isolare ancora di più Gesù nella drammatica solitudine che vive prima del suo arresto: “E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Allora gli si accostò dicendo: «Rabbì» e lo baciò. Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono.
Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!». Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono”(Mc 14,43-50).
Anche in questo brano, la narrazione di Marco si mostra semplice e lineare. Il bacio di Giuda, gesto cristallizzato in tantissime opere dell’arte figurativa, assume tutta la drammatica connotazione d’un tradimento reso ancora più amaro perché proviene da colui che era parte dei “Dodici”, appartenente, quindi, al gruppo di coloro che erano stati con Gesù sin dal principio. “Ed ora gli viene meno proprio uno dei dodici: Giuda. Colui che teneva la cassa della Comunità itinerante e che apparteneva alla cerchia dei “Dodici”, gli stretti collaboratori del Maestro.
C’è un vuoto nel cuore umano di Gesù che neanche l’ambiguo bacio dell’Iscariota, nel Getsemani, riesce a colmare. Anzi scende come fiele nel cuore Suo straziato. Eppure non abbozza alcuna parola di reazione, né un gesto di difesa. Accetta anche il bacio di Giuda, forse come ultimo tentativo di un ravvedimento” (Donato Calabrese, il rosario delle beatitudini, Paoline editoriale libri, 1997, p. 22-23).
Improvvisamente spunta una spada. E’ forse la stessa arma uscita fuori quando Gesù aveva detto poco prima: “chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una”(Lc 22,36)? E’ probabile. E quando qualcuno dei suoi amici caccia fuori la spada e stacca l’orecchio al servo del sommo sacerdote, Gesù risponde ai suoi aggressori: «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!»(vv. 14,48-49).
Appare chiaro come davanti ai suoi occhi, così come nelle sue intenzioni, egli voglia realizzare in ogni modo le antiche Scritture profetiche, attualizzandole con questi eventi.
Abbandonato da tutti i suoi amici che scappano via, Gesù si lascia arrestare, mentre solo un giovinetto lo segue. Poi, anche lui, fermato dagli aggressori del Maestro, scappa via nudo, lasciando tra le loro mani il lenzuolo nel quale era ricoperto.
Sia Matteo che Luca, che ripercorrono, almeno in parte, lo schema narrativo di Marco, offrendo delle varianti al testo di questo evangelista. Anche loro, come Marco, pongono l’accento sul primo atto che compie Gesù nel Getsemani, che è quello di pregare. In Luca, però, Gesù invita i suoi amici a pregare “per non entrare in tentazione”(Lc 22,40). Poi si allontana dal gruppo portando con sé, secondo la testimonianza di Matteo che concorda con Marco, “Pietro e i due figli di Zebedeo”(Mt 26,37). Seguendo ancora lo schema narrativo di Marco, Matteo ci dice che Gesù comincia a provare “tristezza e angoscia”(Mt 26,37). Ma l’evangelista Luca si sofferma di più su questi sentimenti di Gesù, conferendo ad essi un maggior risalto, una maggiore drammaticità: “In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”(Lc 22,24). Non è solo l’evangelista, qui, a narrare questa specifica esperienza biologica del Maestro, ma anche il Luca Medico(Col 4,14), attento, quindi, più degli altri evangelisti a prestare attenzione a certe condizioni fisiologiche sulle quali si riflette lo stato psico-fisico del Maestro, in queste ore drammatiche. Anche se non è un testimone oculare degli avvenimenti, non possono essere sfuggite, ad un medico colto come Luca, le testimonianze orali della passione del Maestro, con le relative sfaccettature biologiche e fisiologiche. La stessa narrazione del Getsemani, relativa alla sudorazione del sangue da parte di Gesù, appartiene alla fenomenologia medica di un particolare tipo di sudorazione, che potrebbe essere catalogata tra quelle della ematoidrosi, provocata da un forte stress emozionale che provoca un fenomeno di vasodilatazione associata ad un considerevole incremento della permeabilità dei capillari. Queste situazioni promuovono un'extravasazione del sangue nelle ghiandole sudoripare, che, in tal modo, secernono sudore misto a sangue. Sia il versetto relativo alla sudorazione di sangue, che quello precedente che accenna all’apparizione di un angelo che conforta Gesù(Cfr Lc 22,43-44), sono un’esclusiva dell’evangelista Luca, e benché essi siano assenti in alcune testimonianze (come il codice Vaticano [B] e le versioni siriano-sinaitica ed egiziana) sono attestati, già nel II secolo, da numerose testimonianze (come quella del codice sinaitico, di Beza, della recensione antiochena, vetus latina, volgata, etc.). E’ per questo che, secondo qualche studioso, i versetti non appartengono al testo originale (A. Merk e G. Barbaglio, Nuovo Testamento, Greco e Italiano, Edizioni Dehoniane Bologna, 1990, pag. 291, nota 43s). Secondo la Bibbia di Gerusalemme, invece, la loro omissione nei documenti dove non sono riportati (ripeto: il codice Vaticano [B], e le versioni siriano-sinaitica ed egiziana) “si spiega con la cura di evitare un abbassamento di Gesù giudicato troppo umano (La Bibbia di Gerusalemme, VI Edizione, luglio 1985, 2250 s. nota 22,43-44).
Ma torniamo al cuore dell’esperienza di Gesù nel Getsemani: la sua preghiera. Abbiamo visto in precedenza che nel racconto di Marco, Gesù si rivolge al Padre con queste parole: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu»(Mc 14,36). Anche negli altri Sinottici c’è questa sostanziale concordanza con Marco. Tutti e tre gli evangelisti riportano le parole sublimi con le quali Gesù chiede al Padre di allontanare da lui il calice doloroso della sua passione. Così in Matteo: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!»(Mt 26,39). Lo stesso dicasi in Luca: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà»(Lc 22,42). C’è, allora, una totale concordanza di questi evangelisti sui sentimenti provati dal Maestro nella sua preghiera al Padre. Con una piccola, rilevante, differenza. In Marco, Gesù si rivolge al Padre con il tenero appellativo di Abbà, contrariamente a Matteo e Luca che riportano il termine “Padre”. Anche Matteo e Luca, che sono stati scritti dopo il vangelo di Marco, avrebbero potuto riportare questo termine, ma non lo hanno fatto. Così, almeno, secondo l’apparenza. In realtà, anche Matteo e Luca possono aver utilizzato lo stesso termine, seppure riportato sul testo greco dei loro Vangeli, in modo diverso. La differenza sta nel fatto che nella preghiera riportata in Marco, Gesù dice: “Abba pater”, “Abbà Padre”. In Matteo, invece, troviamo scritto, sempre in greco, “Padre mio”(Mt 26,39), mentre in Luca troviamo la semplice locuzione di “Padre”(Lc 22,42). Così il testo greco. In realtà, nonostante la differenza, emerge un unico contenuto, quello tenerissimo di “Abbà”, rivelato direttamente da Gesù. Infatti, come già stato detto in precedenza, quando abbiamo parlato della psicologia di Gesù, sia J. Jeremias che W. Marchel ritengono che i differenti usi dell’appellativo “padre” nella lingua greca del Nuovo Testamento (al nominativo, al vocativo e con il pronome possessivo) traducono probabilmente l’unica espressione aramaica Abbà, che Gesù usa per designare Dio e rivolgersi a lui(Cfr. A. Marangon, Dio, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, 1988, p.401). Con questo termine affettuoso e dolcissimo, nonché familiare, di “Abbà”, Gesù intende sottolineare la sua totale fiducia, il suo abbandono completo alla volontà del Padre ed al suo Amore.
A questo punto, occorre pure riferire quello che pensano alcuni studiosi, e cioè che “nell’attesa dell’avvento del Regno di Dio, Gesù sale a Gerusalemme senza però cercarvi la morte. Le sue speranze (e quelle dei suoi discepoli) che la signoria di Dio, l'atteso Giorno di Jahvé, irrompa proprio in questa occasione, falliscono. Secondo altri, invece, Gesù ha previsto la sua morte e l’ha accettata come conseguenza della sua missione messianica, per operare la riconciliazione «per i molti», vale a dire per Israele e per i popoli. Anche noi la pensiamo così. Del resto, tutto l'insegnamento della Chiesa è orientato in questa direzione. Gesù, dunque non solo ha intuito o previsto la propria morte, ma l’ha consapevolmente voluta, intendendola come compimento della sua missione.
Con l’idea plausibile che Gesù abbia previsto e voluto la sua morte, torniamo al Getsemani, dove Egli mostra di abbandonarsi docilmente alla volontà del Padre, chiamandolo familiarmente coll’appellativo di Abbà. È dopo questo momento nel quale affiora il contrasto stridente tra l’atteggiamento oblativo ed eroico del Maestro con la fiacchezza dei suoi amici, che giunge Giuda il traditore. Tutti e tre i Vangeli Sinottici concordano nel ricordare, ai loro lettori, che Giuda è uno dei Dodici, uno dei collaboratori più stretti della Comunità di Gesù. Proprio lui che aveva condiviso, con gli altri Undici, un lungo periodo di familiarità e di convivenza con il Maestro, precede la gente gente armata di spade e bastoni (Mt 26,47; cfr. Mc 14,43), inviata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo (Mt 26,47), ma anche dagli scribi, secondo la testimonianza di Marco (Mc14,43).
“Ad una folla venuta armata di spade e bastoni, non oppone alcuna difesa. Anzi uno dei suoi, presa la spada per difenderlo, colpisce il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Ma Gesù gli dice: “Rimetti la spada nel fodero perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che non posso pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le scritture, secondo le quali così deve avvenire?”(Matteo 26,52).
“In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono”(Mt 26,55-36). Così il testo di Matteo conclude la drammatica vicenda del Getsemani. Luca, invece, pur non toccando la drammaticità arcaica del racconto di Marco (gli misero le mani addosso e lo arrestarono)(Mc 14,46), inserisce qualcosa di suo. E’ un breve dialogo tra Gesù ed uno che stava con lui: “Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate, basta così!». E toccandogli l’orecchio, lo guarì”(Lc 22,49-51).
In Luca non troviamo nessun accenno, né all’aggressione di Gesù così come ci è tramandata dall’evangelista Marco, né allo scandalo dei suo amici che si danno alla fuga. Sembra proprio che voglia stemperare la drammaticità del momento, e lo scandalo della fuga di quelli che saranno le future colonne della Chiesa primitiva. Nel porre per iscritto il suo Vangelo, confacente al suo carattere di uomo sensibile e medico colto, Luca mostra tatto e delicatezza evitando di porre l’accento sull’aggressione violenta a Gesù e, soprattutto, sulla fuga degli apostoli impauriti, mostrandosi, come vedremo in seguito, sulla stessa linea del quarto evangelista.
Rileggiamo l’episodio di Gesù nel Getsemani attraverso quello che è il Vangelo più tardivo, e cioè Giovanni: “Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c’era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli. Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi. Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano». Perché s’adempisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?». Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno”(Gv 18,1-13).
Giovanni tace sui sentimenti di angoscia provati da Gesù nell’orto degli ulivi, ed anche sulla preghiera al Padre. A lui interessa soprattutto mettere in evidenza la maestà del Rabbi di Galilea, ed inizia il suo racconto relativo al Getsemani, ricordando che “anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli”(v.2). Di conseguenza anche Giovanni, come gli altri evangelisti, sottolinea il fatto che Gesù si dirige proprio nel luogo dove Giuda lo troverà. Quindi c’è uniformità tra le diverse tradizioni evangeliche, in riguardo alla scelta di Gesù di recarsi nel Getsemani. Questo potrebbe già significare l’intenzione reale del Maestro: andare nel posto dove lo troverà il traditore per farlo arrestare. E Giuda con un “distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si reca là con lanterne, torce e armi”(v.3).
Diversamente dai vangeli Sinottici, qui il Gesù che incontra Giuda con i suoi sgherri, appare, come dicevamo, in tutta la sua Maestà, e ciò anche in questa fase che precede la sua “Ora”. Anche la scena dell’arresto diviene una manifestazione del suo potere. Appare evidente, come vedremo anche tra poco, la profonda teologia presente nel quarto Vangelo, e che mostra come nell’intenzione dell’evangelista, l’Ora dell’innalzamento sulla croce coincida anche con la sua gloria.
Giovanni ci tiene a porre l’accento sul fatto che Gesù sia al corrente di tutto quello che gli deve succedere, mostrando la sua Divinità perfino nel momento dell’arresto. Di fronte ai soldati ed alle guardie incaricate di arrestarlo, Gesù esclama: «Chi cercate?». Gli rispondono: «Gesù, il Nazareno». Dice loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il traditore.
Appena dice: «Sono io», i soldati indietreggiano e cadono a terra. Con l’espressione “Sono io”, in greco “ego eimi”, Gesù manifesta la sua identità Divina (v.5) rivelando, così, la sua coscienza di essere Dio. Già in un’altra parte del quarto Vangelo Gesù aveva detto: “Se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”(Gv 8,24). Il termine ”Io sono” ci riporta col pensiero al nome col quale Dio stesso si autorivela nell’Antico Testamento, allorché dice a Mosè: “Io sono colui che sono”(Es 3,14). E subito dopo aggiunge: “Dirai agli Israeliti: «Io-sono mi ha mandato a voi»(Es 3,15). L’espressione “Sono io”, con la quale Gesù si presenta di fronte alle guardie del tempio, potrebbe significare, nel pensiero del redattore evangelico, l'autorivelazione di Gesù Figlio di Dio, e quindi la sua Divinità. Ecco perché, nell’ottica teologica di Giovanni, al sentire il termine “Sono io”, i nemici cadono a terra: “Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra”.
C’è un altro elemento da considerare. Giovanni ci tiene a non presentare, diversamente dai testi di Marco e Matteo, l’aspetto scandaloso della fuga dei discepoli. Anzi mette in evidenza l’interesse di Gesù per essi, affinché si salvino. “Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”(v.8). Non c’è solo la sensibilità e l’affetto di Gesù verso i suoi amici, ma anche il suo desiderio di rendere attuali le Scritture: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato”(v.9).
Il quarto Vangelo appare più circostanziato, in riguardo ad alcuni dettagli connessi con l’arresto di Gesù. Solo qui troviamo il nome di colui che caccia la spada e taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote. Secondo la testimonianza di Giovanni, è Simon Pietro, a colpire il servo del sommo sacerdote, il cui nome è Malco. Appare evidente come colui che ha messo per iscritto il quarto vangelo, pur conoscendo i testi evangelici precedenti, abbia dei suoi personali ricordi, molto vivi, riguardo a queste ore decisive della vita del Maestro.
Al di sopra di tutta la narrazione, occorre dire che in questo quadro appare un Gesù che come “Figlio obbediente del Padre” va incontro alla sua Passione: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?”(v.11).
A conclusione di questo capitolo dedicato alle ultime ore di libertà passate da Gesù nell’orto degli Ulivi, è doveroso nonché interessante constatare l’abbondante ricchezza di dati archeologici che dimostra quanto possa essere storicamente veritiera la vicenda di Gesù nel Getsemani. Tuttora sono tre i luoghi legati alle vicende dell’orto degli Ulivi. Il primo è rappresentato dalla grotta del frantoio, che ha dato il nome al sito. Il secondo è il piccolo appezzamento di terreno con gli ulivi, mentre il terzo è identificato nella cosiddetta pietra dell’agonia, dove Gesù pregava il Padre che passasse da lui il calice simbolico delle sue pene. La grotta del frantoio e l’orto del Getsemani dovevano essere proprietà di un discepolo di Gesù, perché sin dai tempi della Chiesa nascente potevano essere visitati, oltre che dai cristiani delle generazioni successive. E già nei primissimi secoli la grotta venne trasformata in chiesa rustica, come testimoniano i resti di pavimento in mosaico. Gli antichi pellegrini ricordavano una basilica situata nell’orto degli ulivi, precisamente su quella che è chiamata pietra dell’agonia, che verosimilmente potrebbe aver ospitato Gesù mentre, prostrato, pregava il Padre.
Completamente scomparsa nel corso dei secoli, la basilica, costruita nel IV secolo dall’imperatore Teodosio, venne distrutta dai Persiani. I Crociati vi edificarono una chiesa col nome di “ecclesiae salvatoris”. Grazie agli scavi iniziati nel 1909 sono stati riportati alla luce i resti della chiesa Crociata. Nel 1919, durante i lavori di ricostruzione del santuario, a due metri sotto il livello della chiesa medioevale apparvero anche i resti di bei mosaici, portando quindi alla luce la chiesa del IV secolo.
Sui resti di queste antiche basiliche è sorta, dal 1920 al 1924, l’attuale chiesa detta dell’agonia, o anche delle nazioni, in quanto alla sua costruzione hanno contribuito tutte le nazioni cristiane. Costruita su progetto dell’architetto italiano Antonio Barluzzi, la Basilica mostra al centro del presbiterio la roccia dell’agonia di Gesù. Di fianco alla Basilica c’è il giardino o orto degli ulivi che custodisce otto ulivi secolari. La domanda che tutti si pongono è se questi Olivi siano gli stessi che hanno visto Gesù nel Getsemani. Secondo la testimonianza del prestigioso archeologo Francescano, Padre Virgilio Corbo, i venerandi Olivi vanno datati a un’epoca posteriore a quella delle Crociate (Per tutto questo Cfr. Virgilio Corbo, Getsemani: archeologia dei santuari, in Storia di Gesù, Ed. Rizzoli, 1984, volume 5, pag. 1666 s. e (Luigi Di Giannicola, La Terra Santa, Opera Romana Pellegrinaggi, 1993, pag. 118-119).
Anche se gli Ulivi sono posteriori all’epoca di Gesù, tutto il luogo evoca le pagine dolorose, eppure pregne di eccezionale valenza parenetica, delle ultime ore di libertà, vissute dal Maestro con i suoi amici, nel pericolo incombente del suo arresto. Anche qui nel Getsemani, come abbiamo visto e vedremo altrove, la costruzione, in tempi diversi, di chiese e Basiliche edificate pedissequamente nello stesso sito, stanno a dimostrare la sacralità di un luogo segnato dal passaggio e dalla struggente preghiera di Gesù di Nazareth.
LA FUGA DEI DISCEPOLI
Nelle pagine precedenti abbiamo accennato ad alcune controversie che dividono gli studiosi in riguardo alla morte di Gesù. Secondo alcuni la morte ha posto fine alla sua attesa del trionfo Messianico, che si sarebbe realizzata in Gerusalemme. Secondo altri, invece, è stato Gesù stesso ad andare incontro alla morte.
Ma a parte tutto questo c’è un particolare rilevante, la cui storicità non può essere messa assolutamente in discussione: la fuga dei discepoli subito dopo l'arresto del Rabbi di Galilea.
Un dato è certo: la morte di Gesù ha posto fine alle attese trionfalistiche dei suoi amici. Il Vangelo più antico, quello di Marco, attesta che nel Getsemani, subito dopo l’arresto del Maestro, tutti, “abbandonandolo, fuggirono”(Mc 14,50). Uno solo segue il Maestro. E’ un giovanetto avvolto in un lenzuolo. Poi mentre sta per essere preso, lascia il lenzuolo e scappa via. Questo dato è presente solo in questo Vangelo, per cui secondo alcuni il giovanetto sarebbe lo stesso evangelista . Il fatto che il nome del giovanetto non esca fuori potrebbe essere uno degli elementi che depongono a favore dell’antichità del vangelo di Marco. Anche l’anonimo che con la spada recide l’orecchio al servo del sommo sacerdote, è mantenuto tale, perché, evidentemente, è ancora in vita quando il Vangelo viene messo per iscritto. Solo in seguito uscirà il suo nome: Simon Pietro.
Quindi, a parte il giovanetto che sarebbe identificabile con colui che sarebbe stato, poi, l’evangelista Marco, tutti gli amici di Gesù si sono dati alla fuga. E questo è un dato che non può essere inventato, anche perché l'immagine dei discepoli di Gesù esce piuttosto malconcia da questa esperienza dolorosa. Una notizia sicuramente attendibile dal punto di vista storico, comprovata, peraltro, dal quarto Vangelo, dove pure, l’autore, benché non accenni alla fuga degli Undici, presenta la scena del Calvario con il solo discepolo che Gesù amava(Gv 19,26). Insieme a lui ci sono solo le pie donne. Solo loro a non lasciare Gesù solo, dopo la fuga dei discepoli, di fronte alla morte. Se non ci fosse stato il crollo degli Undici difficilmente queste donne avrebbero avuto il ruolo prioritario loro riconosciuto nei racconti della Passione.
IL “PROCESSO” GIUDAICO
Dopo la vicenda del Getsemani, cominciano le ore drammatiche della passione, dove faremo leva ancora di più sul testo evangelico di Marco, alle cui radici ci sarebbe una tradizione più antica sugli eventi della passione. Ciò nonostante, non mancheremo di trarre degli opportuni riscontri anche con gli altri evangeli, particolarmente quello di Giovanni, che offre interessanti precisazioni riguardanti il tempo e tanti particolari della passione.
“Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. Intanto i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti attestavano il falso contro di lui e così le loro testimonianze non erano concordi. Ma alcuni si alzarono per testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo». Ma nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde. Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: «Indovina». I servi intanto lo percuotevano. Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo fissò e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò: «Non so e non capisco quello che vuoi dire». Uscì quindi fuori del cortile e il gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è di quelli». Ma egli negò di nuovo. Dopo un poco i presenti dissero di nuovo a Pietro: «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo che voi dite». Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte». E scoppiò in pianto”(Mc 14,53-72).
A lato si vede la Scalinata che collega il Cenacolo con la valle del Cedron ed il Getsemani. E' stata percorsa due volte da Gesù dal Cenacolo al Getsemani e viceversa fino alla casa di Caifa Gesù percorre lo stesso sentiero che lo aveva portato al Getsemani. Stavolta, però, in maniera inversa. Viene condotto, quando ormai è notte inoltrata, nella zona occidentale della città, sul monte Sion, poco lontano dal Cenacolo, nella zona dove sorge la casa del sommo sacerdote.
Uno solo, dei suoi amici, segue il Maestro, anche se da lontano: è Pietro, come attestano i Vangeli Sinottici. Nel quarto Vangelo si menziona anche un altro discepolo di cui non si fa il nome, e che potrebbe essere lo stesso evangelista Giovanni.
La Casa dove viene portato Gesù è, secondo i primi tre evangelisti, quella di Caifa, mentre secondo il quarto Vangelo, Gesù viene portato prima da Anna, il suocero di Caifa, e poi dallo stesso Caifa. Ma sull’autenticità della narrazione e sulla priorità delle tradizioni evangeliche avremo modo di soffermarci dopo. Ora seguiamo il testo narrativo. Nella prima parte del racconto, Gesù è messo sotto accusa da falsi testimoni, le cui diverse dichiarazioni non concordano. Poi emerge un’accusa più circostanziata, quella di voler distruggere il tempio, fatto da mani d’uomo, edificandone un altro non fatto da mani d’uomo(v. 58). Ma neanche su questo punto si riesce a concretizzare un’accusa precisa verso Gesù.
Marco indica come false queste accuse rivolte a Gesù, ma questo potrebbe essere un ulteriore indizio dell’antichità del suo Vangelo, o per lo meno del racconto della passione, perché vorrebbe dire che al tempo in cui mette per iscritto questi racconti, il Tempio è ancora un’istituzione fondamentale del culto ebraico. Sembra quasi che l’evangelista voglia smussare la durezza di un’affermazione che appartiene sicuramente al Gesù storico, vista la drasticità della sentenza che lo pone in contrasto con il Giudaismo ufficiale. E come questo capo d’accusa giochi un ruolo rilevante nella condanna di Gesù, lo possiamo arguire dalle stesse parole che diranno, ore dopo, i passanti sotto il Calvario: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni…”(Mc 15,29).
Del resto, nei giorni precedenti il suo arresto, Gesù aveva scacciato i venditori dal tempio e poi aveva predetto la sua distruzione. Dunque Gesù è accusato di voler distruggere il tempio. Ma lui non risponde a queste accuse, e mentre sta in silenzio, improvvisamente il sommo sacerdote, “levatosi in mezzo all’assemblea”, prende personalmente l’iniziativa di interrogarlo: “«Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?».(vv. 60-61). A questo punto Gesù deve dare una risposta definitiva. E la dà nel modo e nella forma più solenne, e proprio di fronte a coloro che rappresentano la crema religiosa del Popolo Eletto: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo»(v. 62).
Gesù afferma solennemente di essere il Figlio di Dio benedetto. E nel confermare la valenza di questa affermazione nella quale echeggia il nome stesso di Dio: “Io sono”, Egli cita un testo che è presente sia nel salmo 110 (109) che nel libro del Profeta Daniele (Daniele 7,13). Nel primo testo è Dio stesso che dice al suo Messia: “Siedi alla mia destra”(salmo 110-109). Nel secondo, quello di Daniele, con la figura del figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo, Dio designa un uomo che supera misteriosamente la condizione umana.
Dalla reazione del sommo sacerdote si riesce a cogliere quanto eminente sia la portata di questa affermazione: “Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte”(v. 63).
Lo stesso gesto del sommo sacerdote, che precede l’accusa di essere reo di morte, quel gesto rituale di stracciarsi le vesti davanti a tutti, indica che è stata proferita una bestemmia verso Dio e la sua unicità. Tale reazione è prescritta quando viene udita una bestemmia (cfr. la Mishna, Sanhedrin VII, 5, 10.11). Ma c’è un altro elemento che non appare nella traduzione della CEI, quella che noi seguiamo, e che merita, peraltro, di essere considerato. Mentre nella traduzione ufficiale CEI è scritto: “Tutti allora sentenziarono….”, nel testo greco di Marco sta scritto: “Tutti allora lo condannarono che era reo di morte”(v. 64). E’ evidente, quindi, che Marco pone sulle labbra di tutti l’intenzione di condannare Gesù, facendo apparire questo interrogatorio notturno come un vero processo intentato dal sommo sacerdote con alcuni membri o con tutto il Sinedrio. Di questo ne parleremo in seguito. Ma è molto probabile che solo il mattino del giorno dopo, il Sinedrio si sia riunito, in forma ufficiale, per esaminare i capi d’accusa contro Gesù, che si potrebbero così ricapitolare in due punti: a) il suo voler distruggere il Tempio; b) la sua asserzione di essere il Figlio di Dio Altissimo.
Dopo queste affermazioni, Gesù viene lasciato in balia degli sgherri e dei servi del sommo sacerdote, che cominciano così a deriderlo, sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: «Indovina» mentre viene percosso (cfr. v.65). Ma ormai non reagisce più. E’ l’ora delle tenebre, e Lui si abbandona alla furia odiosa dei soldati e dei servi del sommo sacerdote.
Echeggia in questa sua passività, in questo suo essere inerme di fronte al male che lo colpisce, la figura profetica del Servo sofferente di Jahvé, ed è forse ispirato proprio a questa immagine, il suo atteggiamento, totalmente remissivo e mite. Forse Gesù ha davanti agli occhi questa figura preconizzata da un profeta anonimo chiamato secondo Isaia: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”(Is 50,5-7).
A questo punto si apre un’altra finestra sulla narrazione di Marco. L’apostolo Pietro, che aveva seguito Gesù ed ora attende, nel cortile, il decorso degli eventi, viene riconosciuto da una una serva del sommo sacerdote: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù»(v.67). Ma egli nega e mentre il gallo canta – segno che comincia ad albeggiare – è costretto nuovamente a mentire, dicendo di non conoscere Gesù. Ma la sua parlata, un dialetto galileo aramaico, tipico della Galilea, lo tradisce. E viene nuovamente segnato come uno di quelli che stavano con Gesù. Pietro comincia ad imprecare ed a giurare: «Non conosco quell’uomo che voi dite». Per la seconda volta il gallo canta. È il momento in cui gli tornano in mente le parole di Gesù: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte». Scoppia in pianto”(vv. 68-72).
Ci sono degli elementi inopinabili circa una maggiore antichità del Vangelo di Marco, soprattutto nel racconto della passione, rispetto agli altri vangeli sinottici. Questi elementi sono identificabili in alcuni indizi, come quelli riguardanti i due seguaci di Gesù che nel Getsemani non vengono menzionati per nome, mentre, secondo lo stile di Marco, in altre parti dello stesso Vangelo, alcune persone sono menzionate per nome e spesso anche con la segnalazione del luogo d’origine. Per i due discepoli di Gesù coinvolti nel contrasto con le guardie del Getsemani, c’è, invece, l’anonimato. È evidente che Marco ci tiene a “proteggere” queste persone che sono ancora viventi ed operanti in Gerusalemme al momento in cui prende forma il suo vangelo, o almeno una parte di esso. Per cui le tradizioni della passione, di cui quella centrale del processo giudaico, dovrebbero essere state formulate in Gerusalemme già durante la prima generazione cristiana, proprio quando i due anonimi del vangelo di Marco, e cioè Pietro che aveva colpito con la spada il servo del sommo sacerdote, ed il giovanetto avvolto nel lenzuolo che sfugge agli sgherri del sommo sacerdote (che potrebbe essere lo stesso evangelista), sono ancora presenti sul territorio della Giudea.
Anche Matteo e Luca, che ripercorrono lo schema narrativo di Marco, non nominano il discepolo che con la spada taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote, contrariamente a Giovanni che è l’unico che nomina direttamente Pietro come autore del gesto. È evidente che ormai il nome di Pietro può anche uscire fuori dall’anonimato, visto che l’ex pescatore non c’è più nel momento in cui il Vangelo di Giovanni viene messo per iscritto, quindi verso la fine del primo secolo. Eppure, nonostante questa preziosa antichità di Marco, noi ci confrontiamo anche con altri testi evangelici per scoprire qualcosa che Marco può aver trascurato nella sua narrazione.
Come abbiamo detto in precedenza, subito dopo l’arresto, Gesù viene condotto dall’altra parte della città, e precisamente nella Casa del sommo sacerdote. E qui avviene il processo, almeno secondo la testimonianza di Marco, confermata anche da Luca e Matteo. Anzi quest’ultimo precisa che si tratta della casa di Caifa. Secondo Giovanni, invece, Gesù viene condotto in un primo momento da Anna, il suocero di Caifa, e solo successivamente, dallo stesso Caifa. E allora noi possiamo pensare che Caifa, colui che aveva dichiarato: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo”(Gv 18,14), sia il sommo sacerdote che condanna Gesù, ed Anna sia un ex sommo sacerdote. Probabilmente essi si sono alternati nella carica di sommo sacerdote. Oppure, avendo rivestito per molto tempo questo mandato, Anna continui ad essere chiamato Sommo Sacerdote, esercitando una rilevante influenza sul genero Caifa e, quindi, sulle istituzioni giudaiche. Infatti Anna, che è un uomo facoltoso, pur essendo destituito dalla carica di sommo sacerdote nell’anno 15 d.C., continua ad influire in tutte le decisioni del Sinedrio, sia tramite i suoi figli, che per mezzo dello stesso genero Caifa, che prendono il suo posto. Di fatto il potere rimane sempre nelle sue mani . È, quindi, molto probabile, come leggiamo nel Vangelo di Giovanni, che in un primo momento Gesù sia stato condotto da Anna, il cui palazzo è situato sul monte Sion, poco distante dal Cenacolo. Anna ha cominciato ad interrogare Gesù in presenza di alcuni sacerdoti del Sinedrio, dopodiché lo ha mandato, con le braccia legate, al genero Caifa, che abita poco lontano dalla sua casa.
Ma ormai il destino del Nazareno è segnato, anche se non spetta al Sinedrio pronunciarsi sulla pena capitale: lo “ius gladii”. Ecco perché lo stesso quarto Vangelo, attribuito a Giovanni, riporta queste parole dei Giudei, nel momento in cui presentano Gesù a Pilato per farlo condannare: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”(Gv 18,31).
Certamente, come vedremo in seguito, la condanna di Gesù, voluta dal Sinedrio, sarà poi eseguita dall’autorità romana. È la stessa tradizione cristiana ad evidenziare come, tale condanna a morte, sia voluta proprio dal Sinedrio, e quindi accettata da Pilato, anche se qualcuno pensa che tale attestazione potrebbe essere un espediente per non inimicarsi gli occupanti Romani.
IL PROCESSO ROMANO
Ormai il Sinedrio ha condannato Gesù alla pena capitale. Ma, come accennato prima, non può eseguire le condanne a morte. Compito che spetta all’autorità romana, rappresentata dal prefetto della Giudea, Ponzio Pilato, che risiede normalmente a Cesarea Marittima.
In occasione della festività della Pasqua, che vede accorrere a Gerusalemme Israeliti di ogni città della Palestina e del mondo conosciuto, Pilato si trasferisce temporaneamente a Gerusalemme. La sua presenza, unita a quella di molti soldati, rappresenta un deterrente per scoraggiare eventuali tentativi di ribellioni da parte del popolo ebreo, che raggiunge momenti di particolare esaltazione collettiva proprio in occasione della Festa che evoca l’epopea principe della storia di Israele: la liberazione dall’Egitto iniziata con il passaggio, di cui il termine pesach, dell’angelo sterminatore.
È ancora l’alba quando i sommi sacerdoti, gli anziani, gli scribi, dopo aver incatenato Gesù, lo conducono da Ponzio Pilato. A questo punto facciamo parlare il testo di Marco: “Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato.
Allora Pilato prese a interrogarlo: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I sommi sacerdoti frattanto gli muovevano molte accuse. Pilato lo interrogò di nuovo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato”(Mc 15,1-5). Tutti e quattro gli evangelisti concordano nell’affermare che Gesù viene condotto da Pilato. Spetta a lui, come rappresentante dell’autorità romana, eseguire le pene di morte. Infatti, come leggiamo nel quarto Vangelo, i Giudei dicono: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”(Gv 18,31).
Giovanni precisa meglio il luogo dove avviene l’interrogatorio di Pilato. E’ il pretorio. Per non contaminarsi, i giudei attendono che Pilato esca fuori dal pretorio, e qui comincia l’interrogatorio. Pilato domanda a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei? ”. “Tu lo dici”, risponde il Nazzareno. E mentre i sommi sacerdoti lo accusano, Gesù resta in silenzio. Un silenzio che potrebbe essere interpretato come un’ammissione di colpa. Allora Pilato interviene nuovamente, invitandolo a prendere la parola per difendersi: : «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù resta nel suo silenzio. Luca, autore del terzo vangelo, inserisce nel racconto della passione una variante propria. Ed è l’unico a farlo. Pilato viene a sapere, dagli accusatori, che Gesù è Galileo. Quindi appartiene alla giurisdizione di Erode. E allora decide di inviarlo al tetrarca della Galilea e della Perea, che si trova anche lui a Gerusalemme per la Festa di Pasqua.
Erode si rallegra al vedere finalmente quel Gesù di cui tanto si parla. Poi, dopo aver richiesto invano di vedere qualche miracolo – evidentemente la fama ha preceduto Gesù - sempre in presenza dei suoi accusatori, Erode si schernisce di lui, insultandolo e rivestendolo di una splendida veste, rimandandolo, quindi, nuovamente a Pilato.
L’evangelista Luca aggiunge: “In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro”(Lc 23,12).
“Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva. Allora Pilato rispose loro: «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba. Pilato replicò: «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Ma Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Allora essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui.
Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo”(Mc 15,6-20).
La condanna a morte di Gesù è certamente il risultato conseguente di vari tensioni latenti tra lui e la sua missione di rinnovamento religioso da una parte, e l’elite religiosa ebraica, l’autorità romana e lo stesso popolo di Gerusalemme dall’altra.
Nella condanna a morte incidono certamente motivi religiosi, come quello di voler distruggere il tempio e l’atteggiamento critico verso la Torah, la Legge di Israele. Una critica, quella fatta da Gesù, che corre il rischio di scardinare tutto il sistema religioso ebraico che verte attorno al tempio di Gerusalemme. E quindi tutta una serie di privilegi e di potentati che vivono e si rafforzano con la gestione del sacro che ha il suo centro nella Città santa. Anche economicamente l’attività religiosa svolta nel tempio si riverbera positivamente su tutta l’economia di Gerusalemme. Incidono, nella condanna a morte, anche motivi politici, in quanto Gesù si proclama Re dei Giudei e di fronte allo stesso Pilato conferma questa sua regalità. Solo Giovanni precisa che si tratta di una regalità spirituale. Ma sono pur sempre affermazioni pericolose, che non possono non creare turbativa nell’ambiente del dominatore romano, rappresentato dallo stesso Ponzio Pilato.
Ad agire non sono solo il Sinedrio ed i Romani, ma anche delle minoranze elitarie, come per esempio il popolo Giudeo, che sobillato da alcuni, che chiede la crocifissione di Gesù, e gli stessi soldati che infieriscono sul suo corpo. Questa eccessiva durezza è dovuta in parte all’attività stessa del soldato, dimentico dell’umanità e della sensibilità verso i propri simili, ed abituato a colpire ed uccidere. Ma soprattutto al fatto che le coorti romane di Palestina, i cui soldati giustiziano Gesù, sono truppe ausiliarie, nelle quali militano abitanti pagani della Palestina. Condividono l’atteggiamento antigiudaico di molti che vivono in contatto diretto con i Giudei. Sono proprio questi uomini, contraddistinti da sentimenti antisemiti ed antiebraici, a maltrattare, torturare ed uccidere, nel modo più disumano possibile, il Maestro di Galilea.
LA CROCIFISSIONE SECONDO I VANGELI SINOTTICI (Matteo, Marco e Luca)
Siamo all’epilogo della vicenda umana di Gesù di Nazareth. Il Rabbi di Galilea è condannato a morte. Ascoltiamo, a questo punto, i racconto evangelico della crocifissione secondo la versione di Marco, seguita tranne che con qualche variante, da Matteo e Luca.
“Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio, e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. E l’iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano. Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Gesù crocifisso di Velasquez Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso. Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!». C’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme”(Mc 15,21-41; cfr. Mt 27,32-56; Lc 23,26-49).
Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, persone conosciute nella comunità cristiana di Roma(Cfr. Romani 16,13), dove Marco scrive, presumibilmente, il suo vangelo, viene incrociato dal corteo diretto al Calvario e costretto a portare la croce. Evidentemente, le torture subite hanno fortemente indebolito il corpo di Gesù. La stessa croce, come sappiamo, non è che il patibulum, una pesante trave che forma, poi, la parte orizzontale della croce vera e propria. Certamente, nella prima tratta del sentiero che conduce al Gòlgota, Gesù porta la croce personalmente, fino a quando il corteo incrocia Simone il Cireneo, come giustamente cita il testo greco di Marco.
A questo punto l’evangelista Luca inserisce una variante propria, ma che riveste una sua autenticità storica. Nel documento ebraico del Talmud si accenna a vere e proprie associazioni benefiche, formate soprattutto da donne delle classi elevate, che si prefiggono di alleviare, in qualche modo, le pene dei condannati. Si tratterebbe, allora, del gruppo di figlie di Gerusalemme, che segue Gesù, battendosi il petto e facendo lamenti su di lui. Ed è a loro che lo seguono, secondo quanto scrive Luca, che Gesù si rivolge quando dice: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”(Lc 23,28-31).
Gesù viene condotto, così, al Gòlgota, che significa – come precisa l’evangelista Marco, luogo del cranio. Secondo la testimonianza concorde di tutti e quattro i vangeli, al tempo di Gesù e della sua condanna a morte, il Gòlgota si trova al di fuori della città. Essendo un luogo di condanna a morte, e quindi un luogo impuro, non poteva essere situato all’interno della cinta muraria di Gerusalemme. L’attuale chiesa del santo Sepolcro, dove, secondo la tradizione, sono localizzati il Calvario e la tomba di Gesù, si trova invece nell’interno della città vecchia. Anzi già nel periodo bizantino si trovava propriamente al centro della città. Questo potrebbe smentire quello che scrivono i Vangeli. In realtà, ci sono molti dati che confermano i Vangeli stessi, e cioè che negli anni Trenta, dell'era cristiana, l’area del Calvario si trovava fuori città. Giuseppe Flavio parla di tre mura costruite attorno a Gerusalemme, di cui la cinta più recente sarà iniziata, da Erode Agrippa I, soltanto tra il 41 ed il 44 d.C..
Oggi gli archeologi localizzano il Golgotha al di fuori delle seconde mura. Ma torniamo al racconto della passione. Gesù è ormai giunto sul luogo del Cranio, e gli viene offerto vino con mirra, forse preparato da quelle stesse donne (Cfr. Sanhedrin 43a) che hanno pianto su di lui. Questo tipo di bevanda che, in Matteo indica una miscela formata da vino e fiele, mentre in Luca si tratta di aceto, è l’unico briciolo di umanità che troviamo presente sulla scena del Calvario e dovrebbe servire a rendergli meno dolorosa l’immane sofferenza della crocifissione. Ma egli lo rifiuta. Vuole morire pienamente cosciente. Poi viene spogliato di forza e nudo crocifisso. Sono le nove del mattino, quando viene crocifisso. Soltanto Marco precisa l’orario della crocifissione. Le vesti di Gesù vengono divise tra i soldati, tirando a sorte su di esse, come leggiamo in Marco, Matteo, Luca e Giovanni, il quale fa una precisazione: “Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti E sulla mia tunica han gettato la sorte”(Salmo 22 [21] 39). E’ in questo momento che si realizzano, in Gesù, le parole di un anonimo profeta chiamato secondo Isaia: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come un agnello condotto al macello, come una pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”(Is 53,7).
Insieme a lui sono crocifissi due ladroni, o malfattori come li chiama Luca. Uno alla sua destra e l’altro alla sinistra. Al di sopra del suo capo viene messa una tavoletta di legno con incisa la motivazione della condanna a morte. Ancora una volta abbiamo l’attestazione concorde di tutte e quattro gli evangelisti: “Il re dei Giudei”. Nelle accuse dei passanti, ritorna ancora una volta la sua profezia di distruggere il Tempio: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!”.
Sono presenti, alla scena, anche i sommi sacerdoti con gli scribi. Si tratta sicuramente di Anna e di Caifa. “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”. E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano. Questo, per lo meno, secondo i testi evangelici di Marco e Matteo. A mezzogiorno, quando cioè sono passate tre ore dall’inizio della crocifissione, si fa buio su tutta la terra. Si tratta di un fenomeno atmosferico, attestato da tutti e tre gli evangelisti Sinottici, che rappresenta un segno eloquente dell’intervento di Dio alla morte del Figlio suo Unigenito. Un fenomeno previsto, tra l’altro, dai profeti Amos e Sofonia. Così annuncia il primo: “In quel giorno oracolo del Signore Dio farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno! Cambierò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento: farò vestire ad ogni fianco il sacco, renderò calva ogni testa: ne farò come un lutto per un figlio unico e la sua fine sarà come un giorno d’amarezza”(Am 8,9-10). Così, invece, Sofonia: “Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità…”(Sof 1,15). Certamente non sappiamo se questo fenomeno sia veramente avvenuto o sia solo presente in simbolo. Però alle tre di pomeriggio, quando Gesù muore, il fenomeno termina. Ma prima di morire, al termine di un lunghissimo silenzio, rimasto tale anche di fronte alle urla ed agli insulti dei suoi crocifissori e di coloro che lo hanno mandato a morte, Gesù emette un grido: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è un grido di disperazione, anche se emesso da Gesù in punto di morte. È l’inizio del salmo 21 [22], lo stesso che profetizza la spartizione delle vesti di Gesù. Questo salmo comincia proprio con le parole: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza» : sono le parole del mio lamento”(21,2), e continua così: “In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati; a te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi”(Salmo 21,5-6). Quindi Gesù sta per cominciare una preghiera quando il grido gli rimane strozzato in bocca. Infatti subito dopo spira.
Tutto qui il racconto di Marco, al quale Luca aggiunge di suo qualcos’altro, mostrando Gesù come un martire esemplare, che finanche in punto di morte pensa alla salvezza degli uomini e prega per i suoi carnefici: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno(Lc 23,34). Il dialogo col buon ladrone lascia intravedere l’idea che la vita ultraterrena cominci subito dopo la morte: "E aggiunse [il buon ladrone n.d.a.]: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno»". Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso»"(Lc 23,42-43). Ed è nel momento della morte che si squarcia il velo interno del tempio, quello che introduce al Santo dei Santi, la parte più sacra di Israele. Con questo evento, attestato da Marco, Matteo e Luca, si vuol forse alludere alla fine del culto ebraico sancita dal rifiuto dell’Unigenito di Dio, da parte della sua gente. E mentre il Crocifisso giace ormai inerme sulla croce, forse traspare dalle parole del centurione romano l’espressione registrata dai Vangeli sinottici: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”(Variante Lucana: «Veramente quest'uomo era giusto» (Lc 23,47).
LA CROCIFISSIONE SECONDO IL QUARTO VANGELO (Giovanni)
Il racconto delle ultime ore trascorse da Gesù sul Calvario, così come tramandato nel quarto Vangelo, non segue la falsariga narrativa dei Vangeli di Marco, Matteo e Luca. Sembra, anzi, che esso disponga di notizie più circostanziate sull’evento della crocifissione. “Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei». Rispose Pilato: «Ciò che ho scritto, ho scritto». I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte. E i soldati fecero proprio così.
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa. Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da Gesù e vedendo che era gia morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dá testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto(Gv 19,17-37).
Sul luogo dove viene eseguita la condanna capitale di Gesù, c’è una straordinaria concordanza tra tutti e quattro gli evangelisti. È un rialzo roccioso chiamato Gòlgota, termine aramaico che significa “luogo del Cranio”. Rispetto agli altri tre evangelisti che accennano solo all’iscrizione posta sul capo di Gesù a motivo della sua condanna (“Il re dei Giudei”Mc 15,26; cfr. Mt 27,37; Lc 23,38), Giovanni è più circostanziato su tale iscrizione, precisando che il titulus crucis, cioè la tavoletta di legno posta sul capo di Gesù con l’indicazione del motivo della condanna, è scritto in ebraico, latino e greco. La dicitura conferma sostanzialmente quanto dichiarato dagli altri vangeli: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
A questo punto, diversamente dagli altri vangeli, il testo di Giovanni registra una piccola disputa avvenuta tra i sommi sacerdoti e Pilato. I primi chiedono al prefetto di Giudea: “Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei”. La risposta di Pilato non lascia ulteriore spazio alla loro richiesta: “Ciò che ho scritto, ho scritto”.
C’è un altro dato interessante nel Vangelo di Giovanni. Diversamente dagli altri evangelisti, egli precisa meglio la sorte degli abiti indossati dal Maestro, volendo dimostrare come anche in alcuni elementi che potrebbero sembrare di secondaria importanza, si realizzino le antiche profezie: “I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte”. Ancora una volta viene citato il salmo 22 [21].
A questo punto Giovanni inserisce il breve dialogo tra Gesù, sua madre e Giovanni: “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!»”. La presenza di Maria sotto la croce, ed il dialogo a tre, tacito e parlato tra Gesù sua madre e Giovanni, è una testimonianza esclusiva del quarto vangelo. Le parole dette da Gesù a sua madre ed al suo discepolo amato, acquistano proprio qui, sul Calvario, una pregnanza che si riverbera in tutta la Storia stessa della Cristianità. Certamente Gesù vuole affidare sua madre a Giovanni, il discepolo prediletto. E Giovanni prende sul serio l’invito di Gesù: “E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”. Ma nello stesso tempo, Gesù affida Giovanni alla madre. Un gesto che, nello stile dell’evangelista, intende rivelare qualcosa di più profondo di un semplice duplice atto di affidamento. In queste parole di Gesù morente, si scopre un’intenzione che supera la sfera strettamente domestica da madre a figlio, per dilatarsi a tutta la comunità cristiana. Dicendo queste parole Gesù costituisce Maria madre di tutti i “discepoli” figurati nel discepolo amato lì presente. Per cui Maria è madre spirituale di tutti i credenti: è madre della chiesa. E questo per volontà dello stesso Gesù (Cfr. A. Serra, Bibbia, in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, 1985, 284).
La tradizione cristiana, a partire specialmente dal secolo V, registra un coro interminabile di voci che ripetono e approfondiscono la stessa convinzione… La stessa esegesi biblica odierna, da circa trent’anni a questa parte, sta mettendo in luce argomenti letterali diretti, in favore di una lettura che vede in questi testi di Giovanni la proclamazione della maternità spirituale di Maria verso tutti i fedeli(A. Serra, Bibbia, in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, 1985, 284). Anche i versetti successivi rivestono un’importanza straordinaria, perché Gesù, dopo aver affidato Giovanni alla madre e viceversa, mentre sta morire, quindi consapevole che ogni cosa è stata compiuta secondo le Scritture, dice: «Ho sete». Gli danno da bere dell’aceto. E qui Giovanni è concorde con la testimonianza degli altri narratori evangelici. Però egli precisa che anche qui Gesù attualizza le Scritture, le antiche profezie, e precisamente il salmo 69 [68]: “…quando avevo sete mi hanno dato aceto”. “E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò”.
Diversamente dai testi evangelici di Matteo e Luca, secondo i quali Gesù emette un ultimo grido di dolore invocando il Padre, nel Vangelo di Giovanni Egli muore proclamando la compiutezza dell’opera del Padre: salvare il mondo per mezzo del sacrificio del Figlio. Giovanni ci tiene a manifestare, già da questa scena del Calvario, la maestà di Gesù, anche se è sulla croce. È in questo Vangelo, l’ultimo tra quelli messi per iscritto, che la sua sovranità è sottolineata più che altrove. La crocifissione è interpretata come “l’ora della glorificazione” e dell’esaltazione del Figlio di Dio.
C’è un ultimo momento da ricordare. Poiché il giorno dopo, che sarebbe stato il sabato, è un giorno solenne: quello della Pasqua, non è bene che i corpi dei crocifissi siano ancora esposti. Vengono, dunque, i soldati e spezzano le gambe ai ladroni. Giunti a Gesù non gli spezzano le gambe, ma uno dei soldati gli trafigge il fianco con una lancia, facendo fuoriuscire sangue ed acqua. Questo particolare è presente solo nel Vangelo di Giovanni. All’occhio dell’evangelista questa scena viene interpretata con un chiaro riferimento alla figura dell’agnello pasquale, che proprio nel preciso momento in cui Gesù muore, e cioè alle tre del pomeriggio, viene immolato nel cortile del Tempio. Quindi Giovanni, colui che rivela più degli altri, il singolare parallelo tra Gesù crocifisso e la figura dell’agnello pasquale. Quello stesso Giovanni che nel suo vangelo riporta quanto dice il Battista a proposito di Gesù: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”(Gv 1,29) e che nel libro dell’Apocalisse cita per ben 32 volte la figura dell’Agnello, rivela e manifesta in maniera originale, anche grazie alla sua lunga riflessione sul mistero di Cristo, che Gesù è il vero Agnello pasquale. E proprio come agnello pasquale al quale “non ne dovrà essere spezzato alcun osso”(Es 12,46), Gesù muore e non gli viene spezzato alcun osso, ma viene trafitto con un colpo di lancia, provocando la fuoriuscita di sangue ed acqua. Anche qui c’è una chiara reminiscenza biblica. Gesù crocifisso, trapassato da una lancia, viene identificato, da Giovanni, con un personaggio misterioso di cui parla il profeta Zaccaria: “Guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito”(Zc 12,10). Ecco perché, in maniera solenne, Giovanni dichiara: “Chi ha visto ne dá testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate” (Gv 19,35-37).
LA DEPOSIZIONE NEL SEPOLCRO
In tutti e quattro gli evangelisti c’è una straordinaria concordanza sulle memoria della sepoltura di Gesù. il testo che noi proponiamo, per una nostra scelta, è quello di Marco. Ma anche Matteo, Luca e Giovanni, riportano le medesime narrazioni, sebbene con piccole sfumature o l’aggiunta di alcuni particolari. “Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse gia morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto”(Mc 15,42-47; Cfr. Mt 27,57-66; Lc 23,50-56; Gv 19,38-42)
Una norma dell’Antico Testamento dice: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte appeso a un albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il Paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità” (Dt 21,22-23). San Paolo mostra di conoscere molto bene questo passo del Deuteronomio, citandolo nella lettera ai Galati: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno”(Gal 3,13).
Ma non è solo l’osservanza di questa prescrizione a mettere in moto coloro che vogliono seppellire dignitosamente il corpo di Gesù. È la Parascève, cioè “la vigilia del sabato”, come spiega Marco nel suo Vangelo. Tutt’oggi lo Shabbat, e cioè il Sabato, è il giorno del riposo per gli ebrei, come la nostra domenica. E non si può, quindi, staccare i cadaveri dalle croci. Per di più quello è un Sabato speciale, col quale coincide la Festa più importante degli ebrei, la Festa di Pesach, la Pasqua. È per questo motivo che per accelerare la morte dei condannati i capi dei Giudei, come riporta Giovanni, avevano chiesto a Pilato di far spezzare le gambe ai condannati e portarli via dalla scena del Calvario.
Benché da più parti si ponga in evidenza il fatto che come malfattore Gesù possa essere stato sepolto in una fossa comune, noi crediamo nella verosimiglianza dei dati evangelici, anche perché in queste notizie non figurano coloro che erano sempre stati i diretti collaboratori del Nazareno, e cioè gli apostoli. In effetti, solo persone influenti come Giuseppe d’Arimatea, uomo ricco e membro autorevole del sinedrio, potevano ardire di presentarsi a Pilato per chiedere il corpo di Gesù. E sono tutti e quattro i vangeli a raccontare di questa iniziativa di Giuseppe d’Arimatea, uomo buono e giusto, divenuto discepolo di Gesù. E’ lui che va coraggiosamente – come precisa Marco - da Pilato per chiedere il corpo del Maestro. Ed è Marco a presentare, nel suo scarno racconto, l’interrogativo di Pilato, meravigliato che fosse già morto. E solo dopo aver avuto la conferma dal centurione, il Prefetto di Giudea autorizza Giuseppe D’Arimatea a prendere in consegna il corpo di Gesù.
L’evangelista Giovanni unisce alla figura di Giuseppe d’Arimatea, anche quella di un altro estimatore di Gesù: Nicodemo, colui che di notte era andato a trovarlo ed al quale Gesù aveva parlato di una “rinascita dall’alto”.
È buio quando Giuseppe d’Arimatea, dopo aver comprato un lenzuolo, giunge al Gòlgota. E sicuramente, visto che già splendono le luci del sabato (Cfr: Lc 23,54), la strada è deserta, come deserta è la città per lo Shabbat, il riposo settimanale ebraico che comincia con il tramonto del sole.
Probabilmente insieme a Nicodemo, e forse anche con l’aiuto di dipendenti personali, visto che è un uomo ricco ed influente, Giuseppe d’Arimatea provvede a far staccare Gesù morto dalla croce, calandolo giù e poi avvolgendolo nel lenzuolo nuovo di zecca. Si tratta dello stesso lenzuolo che attualmente è conosciuto come la Sindone? Può darsi. Ma di questo avremo modo di parlarne nello spazio dedicato alla Resurrezione di Gesù.
Nel vangelo secondo Giovanni c’è una precisazione in riguardo al trattamento del cadavere di Gesù. Viene “avvolto in bende insieme agli oli aromatici”. Forse sono la mirra e l’aloe, acquistati a caro prezzo da Nicodemo. È solo dopo aver imbalsamato, o meglio unto con oli aromatici, il corpo esanime di Gesù, che il suo corpo viene deposto in una tomba nuova scavata nella roccia, poco distante, quindi, dal luogo dell’esecuzione. Infatti, per osservare il riposo dello Shabbat, già iniziato col tramonto, quest’opera doveva essere compiuta in un luogo non molto lontano dal Calvario.
Ad assistere a questo silenzioso rituale della sepoltura del Maestro, ci sono solo delle donne. Secondo Marco, sono Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses (Cfr. Mc 15,47). L’assenza, nel racconto, degli Undici, gli apostoli che lo avevano seguito sin dalla Galilea, contribuisce ad attribuire alla narrazione una certa credibilità storica. Del resto due degli evangelisti, Matteo e Giovanni, appartengono al gruppo ristretto degli Undici, mentre Marco è l’interprete di Pietro. L’assenza, quindi, degli stretti collaboratori di Gesù, oltre a porre in risalto l’affetto di altri discepoli e persone legate al Maestro, denota anche che il gruppo dei suoi amici vive segregato in una casa del quartiere di Sion. Forse la stessa casa, il Cenacolo, dove hanno mangiato per l’ultima volta insieme col Maestro.
Il clima di smarrimento e turbamento che accompagna fortemente queste ore terribili della piccola comunità, fa risaltare ancor di più il coraggio delle Pie donne. Quelle stesse donne che hanno avuto il coraggio di seguire fino all’ultimo, fino alla tomba, il loro Maestro, saranno le prime testimoni della sua resurrezione. A questo punto l’evangelista Matteo inserisce un episodio avvenuto il giorno dopo: “Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!».
Pilato disse loro: «Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete». Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia”(Mt 27,62-66).
Al di là di quanto appare subito in evidenza, e cioè come la tensione tra Gesù e la sua comunità da parte e le autorità religiose dall’altra, non cessi con la morte del Nazareno, emerge in questo brano un dato preciso col quale l’evangelista Matteo vuole dimostrare a posteriori che il corpo del Maestro non è stato portato via dai suoi discepoli, in quanto la tomba era stata sigillata e davanti ad essa erano stati messi alcuni soldati. Se da una parte il testo di Matteo potrebbe apparire come una preoccupazione apologetica per dimostrare l’inesattezza delle accuse secondo cui il corpo di Gesù sarebbe stato rubato, dall’altra parte, considerato il clima di profondo turbamento e paura nel quale vivono gli apostoli, sembra proprio impossibile dar ragione alle accuse dei giudei.
I LUOGHI DELLA PASSIONE, MORTE E DEPOSIZIONE LA CONFERMA DELL’ARCHEOLOGIA
Nel mettere per iscritto la passione di Gesù, gli evangelisti forniscono delle informazioni sul luogo della crocifissione e della sepoltura. Ed in base a queste fonti canoniche, noi possiamo arguire che il luogo della crocifissione, chiamato Gòlgota, in latino Calvario, è un piccolo rialzo dal carattere roccioso e forma arrotondata, alto dai 5 ai 10 metri (Luigi Di Giannicola, La Terra Santa, Opera Romana Pellegrinaggi, 1993, pag. 97). È chiamato luogo del cranio, forse per la sua forma che richiama l’idea di una testa umana. Marco, nel suo Vangelo, accenna che durante l’agonia di Gesù i passanti lo insultano. Questo fa pensare che il Calvario si trovi lungo una strada d’accesso alla città santa e che sia poco distante da una delle porte della città.
L’esecuzione di una condanna a morte, nell’ottica delle autorità romane, deve servire anche come monito al popolo occupato. Quindi, al tempo della passione, il Calvario si trova fuori delle mura della città. Sarebbe stata la tomba di Giuseppe D’Arimatea ad accogliere il corpo esanime del Maestro, dopo la sua deposizione dalla croce.
Anche se dopo l’episodio della risurrezione di Gesù non si parla più del sepolcro, cosa spiegabilissima col fatto che l’attenzione degli evangelisti e di Paolo è tutta orientata al Risorto, questi luoghi sono e saranno oggetto di venerazione da parte dei cristiani della comunità di Gerusalemme.
Sembra strano che durante gli scavi archeologici condotti nella Basilica, non sia stata scoperta alcuna antica epigrafe di pellegrini. Ma proprio questa apparente lacuna, potrebbe essere un indizio a favore dell’autenticità dell’antichissima tradizione del luogo. Nei primi decenni del cristianesimo primitivo, quando ancora vivevano le generazioni dei testimoni oculari, non c’era alcun interesse alla venerazione particolare di determinati luoghi. Il Sepolcro di Cristo era vuoto; il Signore era risorto. Ciò era noto e così ovvio, che neanche una volta Paolo sottolinea questo elemento per lui secondario. Nelle sue Lettere ciò viene semplicemente presupposto. Nella prima Lettera ai Corinti, Paolo esorta i suoi interlocutori ad interrogare i testimoni oculari del Risorto, nel caso che ancora avessero qualche dubbio; ma in nessun passo c’è un invito a recarsi a Gerusalemme ed a visitare il Sepolcro vuoto.
Eppure una conferma indiretta di questa venerazione rivolta al Calvario ed al sepolcro, che saranno poi racchiusi nell’unica costruzione della basilica del santo sepolcro, l’abbiamo nell’anno 135, allorché l’imperatore Adriano, dopo aver domato una rivolta giudaica, caccia via da Gerusalemme gli ebrei e gli ebreo-cristiani, intendendo cancellare ogni segno di culto verso il luogo della morte, sepoltura e risurrezione di Gesù. Dopo aver spianato, la zona, con della riempitura di terreno, salvaguardandone, senza volerlo, la struttura originaria, Adriano vi costruisce sopra il Campidoglio della nuova città, che chiama Aelia Capitolina, abbellendo il sito con tempietti e giardini (Cfr. Luigi Di Giannicola, La Terra Santa, Opera Romana Pellegrinaggi, 1993, pag. 99). Ed è proprio in prossimità del Calvario che Adriano fa edificare un’edicola a sei colonne con la statua di Venere-Ishtar (nel mito essa sarebbe scesa agli inferi a cercare Tammur per liberarlo) per sostituire l’idea agli inferi di Gesù, realizzatasi secondo gli apocrifi proprio in questo luogo (Sui passi di Dio, Guida, ELLE DI CI LEUMANN, 1984, pag. 116).
La madre dell’imperatore Costantino, sant’Elena, nel 326 fa distruggere e rimuovere tutto quanto Adriano aveva riempito e costruito due secoli prima, restituendo quasi integralmente, sia l’altura del Calvario che la zona del sepolcro di Gesù. Quindi vi fa costruire la prima grande Basilica, che termina nel 335.
Distrutta dai persiani di Cosroe nel 614, la Basilica viene riedificata parzialmente dal monaco Modesto. Poi, nel XI secolo, è nuovamente distrutta dal Califfo Hakem. La forma attuale è dovuta alla ricostruzione dell’imperatore Costantino Monomaco (1048) e, successivamente, all’opera dei crociati (1149) (Cfr. Luigi Di Giannicola, La Terra Santa, Opera Romana Pellegrinaggi, 1993, pag. 99).
Del fatto che Adriano abbia innalzato un terrapieno sui luoghi del Calvario e del sepolcro, abbiamo notizie in Eusebio di Cesarea ed in San Girolamo. Eusebio parla del terrapieno, costruito da Adriano, per occultare la tomba di Cristo e perché facesse da podio all’edificio sacro pagano. La notizia di san Girolamo, nella lettera Ad Paulinum, è molto più sommaria, però più sicura per l’individuazione degli edifici del culto pagano.
Tornando al fatto che durante gli scavi archeologici, condotti nella Basilica, non sia stata scoperta alcuna antica epigrafe di pellegrini, come è avvenuto per altri luoghi anche meno importanti, proprio questo interrogativo che lascia spazio a delle perplessità circa l’autenticità del luogo sacro, potrebbe essere spiegato dal fatto che nei primi decenni del cristianesimo primitivo, quando erano ancora in vita i testimoni oculari della risurrezione di Gesù, poteva non esserci interesse alcuno per un luogo tombale, visto che ormai il corpo della persona Amata non fosse più presente. O forse non è quello il luogo del sepolcro, come sostengono alcuni studiosi, dicendo che i discepoli di Gesù non sapevano niente della sua tomba, per cui era impossibile prestare una particolare venerazione per tale sepolcro? La venerazione sarebbe sorta solo nei decenni successivi, giustificata dal fatto di cercare un luogo da venerare come la tomba di Gesù. Sono supposizioni abbastanza credibili, anche se noi siamo più propensi per la prima ipotesi, per i motivi che abbiamo esposto circa il fatto che i discepoli conoscessero il luogo della sepoltura, come avremo modo di approfondire nelle pagine successive. Ma oltre a questo, c’è un altro dato inoppugnabile, e cioè che da nessuna parte della città santa sono stati rivenuti graffiti o reperti circa una presenza del corpo di Gesù altrove. Del resto la mancanza di epigrafi, di invocazioni a Gesù, che troviamo presenti in altri luoghi sacri segnati dalla sua presenza, è spiegabilissima anche con l’assoluta mancanza dei termini “sepolcro” e “tomba”, riferiti a Gesù, nelle epistole cattoliche. Lo stesso Paolo, che ha dato vita a tantissime comunità cristiane provenienti dal paganesimo, non utilizza mai questi termini nelle sue celeberrime epistole. Essi sono semplicemente presupposti. Nella prima Lettera ai Corinti, Paolo esorta i suoi interlocutori ad interrogare i testimoni oculari del Risorto, nel caso che ancora avessero qualche dubbio; ma in nessun passo c’è un invito a recarsi a Gerusalemme e a visitare il Sepolcro vuoto.