La Trasfigurazione
L’episodio della Trasfigurazione, presente in tutti e tre i Vangeli Sinottici, è localizzato geograficamente nella regione della Galilea, poco lontano dal territorio circostante il lago di Genezaret o di Tiberiade. Sia Marco, che Matteo e Luca situano la vicenda nei giorni immediatamente successivi alla confessione di Pietro avvenuta a Cesarea di Filippi. Si tratta, quindi, di un momento decisivo della vita di Gesù. Un momento segnato dal progressivo allontanamento delle folle di Galilea, il cui incipit è causato, forse, da una visione messianica contraddistinta dalla prospettiva della “Passione”. Una visione illuminata non poco dalla figura biblica del “Servo di Jahvé”, preannunciata da un profeta anonimo chiamato Deutero Isaia, o secondo Isaia.
Gli stessi discepoli, del resto, non sembrano voler accettare questa “logica” folle del Maestro, se è vero che dopo la Trasfigurazione, successivamente alla seconda profezia della passione, essi discuteranno, tra di loro, per confrontarsi su chi fosse “il più grande”. Appare quindi netta la forbice tra la prospettiva dolorosa di Gesù che intravede già davanti a sé, con il viaggio a Gerusalemme, il proprio cruento destino finale, e le assurde dispute dei suoi amici che aspirano ad essere grandi ed importanti (Mr 7,24 ss.. Cfr. Mt 18,1-5; Lc 9,46-48).
Ma ascoltiamo il racconto della Trasfigurazione nella versione più arcaica che è quella di Marco. “Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti (Mr 9,2-10. Cfr. Mt 17,1-8; Lc 9,28-36).
Il Tabor al tramonto Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni in un luogo in disparte. Li porta sopra un monte. Secondo la tradizione, risalente a Cirillo di Alessandria, si tratta del Tabor, una collina alta 588 metri, di forma conica, che si staglia sulla verdeggiante pianura di Esdrelon o Izreel. Da questo monte lo sguardo spazia su un ampio scenario di colli e di valli, offrendo una sguardo panoramico suggestivo ed incantevole della Galilea. E qui, sul Tabor, Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi tornano dal territorio di Cesarea di Filippo dove il Maestro aveva esplicitamente detto quale sarebbe stato il suo destino, insegnando loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi; essere ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. E a Pietro che non voleva accettare questa “via della croce” a cui Lui voleva prepararli, Gesù aveva esclamato con rimprovero: “lungi da me Satana, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini”, facendo, così, capire che il progetto di salvezza dell’umanità doveva passare per la passione e morte del Figlio suo prediletto.
Ora, dopo aver catechizzato i suoi amici sull’epilogo drammatico della sua vita, che avrebbe poi spianato la via alla resurrezione, il Maestro conduce proprio Pietro insieme ai due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, sul monte Tabor. Egli certamente vuole prepararli per gradi alle ore dolorose della passione e dello scandaloso smembramento del “suo gregge”. E’ importante, quindi, che loro sappiano che, con la sua sofferenza Gesù, conferisce un “Senso”, un valore incalcolabile, a tutte le sofferenze umane, divenendo totalmente “solidale” con esse, cioè condividendo, fino in fondo, fino alla morte più ignominiosa, la debolezza e il dolore che quest’umanità sperimenta fin dai suoi albori. Del resto non bisogna dimenticare che Gesù identifica in sé quel SERVO DI DIO, preconizzato da Isaia, e la sua missione non riguarda solo Israele ma tutti i popoli; ad essa egli si dedica senza riserve, incontrando dure ostilità; quindi la sua vita è predestinata, in questa prospettiva biblica, a concludersi tragicamente. Ma egli sarà glorioso dopo la morte e così salverà gli uomini, versando il suo sangue per loro. E’ questa, finalmente, la Nuova Alleanza stretta da Dio con l’umanità e fondata non più su sangue di tori e di capri, ma sul sangue verginale ed Immacolato del Cristo. Ed è proprio qui, sulla vetta Tabor, il Signore vuole educare, nel silenzio e nella pace del luogo, questi suoi amici a saper accettare le ore difficili e tumultuose del Calvario. Egli conosce le loro debolezze. Sa che il loro cuore schietto e sincero è per lui. Ma sa anche che ben altri erano i loro progetti: regnare, a fianco di Lui sulle dodici tribù di Israele. Egli stesso glielo aveva promesso, ma si trattava di ben altro: un Regno spirituale. E allora, squarciando per pochi attimi il velo che copre la sua Divinità, Gesù si manifesta per quello che è: Figlio di Dio Altissimo. In questo spettacolo di luce Divina i tre apostoli lo contemplano in compagnia di Mosè ed Elia, i due grandi personaggi dell’Antico Testamento che raffigurano la Legge ed i Profeti. Essi sono qui ad indicare che in Lui si realizzano le antiche profezie della Bibbia, e a Lui converge e si indirizza tutta la Storia sacra.
E’ un momento di timore, ma anche di grande gioia e consolazione per Pietro che nella sua spontaneità esclama: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento». Poi la manifestazione della Divinità di Cristo assume una configurazione solenne. E’ il Padre stesso che si manifesta nella voce che proviene dall’alto: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!».
Sappiamo che Gesù dedica molto tempo alla preghiera, specialmente nei momenti decisivi della sua vita pubblica. Già Marco racconta che Gesù, dopo aver congedato la folla “salì sul monte a pregare”(Mc 6,46. Cfr Mt 14,23). Luca attesta più volte, oltre all’episodio della trasfigurazione (Lc 9,28) che Gesù si ritira in luoghi solitari a pregare (Lc 5,16; 6,12; 9,18; 11,1). Quindi quest’azione di pregare in luoghi solitari è fortemente attestata dai redattori dei Vangeli Sinottici. Non si può negare che Gesù sia salito su un monte - e poi vedremo quale - per pregare e vivere con i suoi amici una straordinaria esperienza soprannaturale. Il soprannaturale, del resto, è presente fortemente nella sua vita pubblica, e lo stiamo testimoniando con questo cammino di ricerca storica. Il racconto della trasfigurazione è presentato in un modo unitario, e quindi non frammentario come quelli della resurrezione. Essi sono messi in discussione anche per la loro frammentarietà, questo per la sua unitarietà.
Chiudiamo, infine, queste riflessioni considerando la tradizione e l’archeologia, anche se per l’influenza che ha avuto sulla Storia e sul Pensiero della Chiesa, soprattutto quella Orientale, il racconto della Trasfigurazione meriterebbe ben altro spazio.
I Vangeli sinottici situano l’episodio della Trasfigurazione su un monte di cui non menzionano il nome. Anche la seconda lettera di Pietro parla di un “santo monte”(2Pt 1,18) sul quale sarebbe avvenuta la vicenda della Metamorfosi di Gesù. Una tradizione antica, attestata già nel IV secolo da S. Cirillo di Gerusalemme e da S. Girolamo, identifica il sito nel monte Tabor, in arabo Gebel at-Tur, «la montagna». Un colle rotondeggiante ed isolato, alto circa 600 metri. E’ su questo colle che i bizantini costruiranno, poi, tre chiese di cui parla l’Anonimo Piacentino che le visiterà nel 570. Un secolo dopo Arculfo vi troverà un gran numero di monaci, e il Commemoratorium de Casis Dei (secolo IX) menzionerà il vescovado del Tabor con diciotto monaci al servizio di quattro chiese. Successivamente ci saranno i Benedettini che costruiranno anche un’abazia, circondando gli edifici di una cinta fortificata. Distrutto tutto dal sultano Al-Malik (1211-12) per costruirvi una fortezza, i cristiani vi torneranno nuovamente, costruendovi un santuario. Anche questo sarà distrutto per ordine del sultano Bibars (1263), lasciando il monte desolatamente abbandonato per oltre quattro secoli. Solo nel 1631 i francescani potranno prendere il possesso del monte Tabor. Due secoli dopo, nel 1854, essi cominceranno a studiare le rovine del passato, iniziando nuove costruzioni che culmineranno con l’attuale Basilica a tre navate, su disegno ed esecuzione dell’architetto A. Barluzzi, che sarà inaugurata nel 1924 .